“L’inferno chiamato Afghanistan”, la presentazione al Festival dei Diritti

Lunedì 19 novembre, il Collegio Senatore di Pavia ha ospitato la presentazione del libro di Giuseppe Bresciani  “L’inferno chiamato Afghanistan. Storie del paese dei talebani” (Lampi di stampa, 2012).

L’esperienza che racconta risale al 2010, quando la figlia decise di accettare un lavoro presso un’organizzazione non governativa e lui decise di accompagnarla. Bresciani per tre mesi abitò nella casa di una famiglia afghana, visitò un carcere, quattro ministeri, le Shelters, ovvero i rifugi delle donne ribelli, diversi ospedali (spacciandosi per chirurgo), gli orfanotrofi. Durante la permanenza in Afghanistan ha rischiato di perdere la vita più volte, venne preso a sassate al mercato, venne arrestato.

«Non ho mai pensato di morire – racconta lo scrittore comasco – perché quando ti trovi in una situazione così estrema, non hai il tempo di pensare. Ho provato apprensione ogni qualvolta mi sono imbattuto in una colonna militare americana, per questa tensione palpabile che si percepiva negli occhi dei soldati che hanno il dito sempre sul grilletto». Durante l’incontro l’autore ha parlato anche dei soldati italiani, impegnati nel paese nella costruzione di strade, rifugi ed ospedali.

«L’episodio che mi ha colpito di più riguarda la condizione della donna» continua Giuseppe Bresciani «vedere nei carceri femminili, donne che scontano delle pene, a tempo indeterminato, per aver commesso, o solo perché si è pensato che abbiano commesso dei reati assurdi, come per esempio, aver guardato un uomo, e per questo picchiate, e violentate, è inimmaginabile per noi». Circa 18.000 donne muoiono ogni anno durnate il parto: l’Afghanistan è considerato il peggior paese al mondo dove poter mettere alla luce un figlio, perché il 73% delle donne partorisce in casa, in condizioni pessime. Il 43% delle ragazze si sposa prima dei 18 anni e il 93% dei matrimoni sono combinati, spesso tra giovani ragazze e uomini anziani. La maggior parte delle vedove, poi, è costretta a vivere di elemosina o si prostituisce.
Il burka è invece «un segno di sicurezza» afferma Bresciani «loro vedono ma non sono viste e non essere notate è un bene».

La realtà che presenta e racconta è cruda. Molti bambini sono orfani, rapiti e venduti dalle famiglie. Molti vengono uccisi e i loro organi venduti nei mercati cinesi ed americani. «E’ un’esperienza che ti cambia la vita – conclude – perché mostra una realtà umana che si fa fatica a concepire». [Ascolta l’intervista]

BC